Brano: Giobbe 19:1-11 e 23-27

Nello scorso messaggio abbiamo trattato il tema della sofferenza come componente ineludibile della nostra vita, e di come poterla gestire in Dio e nella chiesa senza fingere che non esista o che sia segno di scarsa fedeltà; oggi, proseguendo su questo filone, tratteremo gli elementi forse più spinosi con cui ci troviamo ad avere a che fare quando parliamo di sofferenza in relazione al nostro rapporto con Dio: incomprensione, frustrazione, e, in primis, rabbia.

Il brano di oggi è significativo in tal senso: a parlare è Giobbe, uomo devoto che diviene inconsapevolmente protagonista di una disputa tra Dio e Satana per valutarne la sua fedeltà.

Ho scelto questo brano innanzitutto perché è molto eloquente da due punti di vista:

  1. L’identificazione concreta della sofferenza di Giobbe, fisica – estrema – e psicologica – incomprensione, senso di abbandono, paura, rabbia.
  2. L’espressione concreta della frustrazione di Giobbe che si esplica in esternazioni di rabbia verso Dio (v. 6)

Giobbe sta male, malissimo: è sempre stato un uomo devoto a Dio, ha prosperato, e ad un tratto ha perso tutto in un istante, e ha cominciato a soffrire patimenti fisici estremi.

Come reagisce? Con grande rabbia: non capisce il perché di una tale sventura, si chiede cosa abbia fatto di male, si chiede perché Dio permetta tutto ciò, se lo stia punendo o se semplicemente si sia dimenticato di lui.

Ad assisterlo ci sono degli amici che forse tanto amici non sono, dal momento che, senza nemmeno premurarsi di ascoltarlo granché, sentenziano uniti contro di lui: “Se stai male è perché hai peccato, quindi Dio ti sta punendo”. È una relazione causale: pecchi, vieni subito punito. Ad a corrisponde b, come se fosse una equazione matematica. Meccanicismo assoluto. Pensano di avere capito tutto, non hanno capito nulla. La ragione era ben diversa, troppo lontana affinché tanto loro quanto Giobbe potessero capirla.

Giobbe soffre per tutto questo, e innumerevoli volte si lamenta con Dio, con forza, in modo esplicito, come abbiamo visto.

Il versetto 6 è eloquente: Dio mi ha imprigionato e mi ha fatto torto. Dio è colpevole verso di me. Nessuno mi risponde, sono da solo e Dio mi ha abbandonato alle sofferenze.

È giusto dire “Dio mi ha fatto torto”? No. Chi siamo per ergerci a giudici del suo operato? Nessuno. È comprensibile la rabbia di Giobbe verso Dio di fronte a quanto stava accadendo? Questa è già una domanda più spinosa. Stando ad una professione di fede forte, dovremmo dire no, dovremmo dire che la fiducia deve permanere nonostante la difficoltà, e che la fiducia in Dio possa quindi dare pace al nostro cuore. Nella pratica, vedendo quanto e cosa Giobbe stesse soffrendo, mi assumo l’onere di dire che invece sì, comprendo Giobbe, comprendo la sua rabbia, comprendo la sua frustrazione, comprendo il suo senso di abbandono. Probabilmente io avrei reagito così anche per molto meno (e probabilmente nella mia vita l’ho fatto!). Non posso di certo giudicarlo negativamente.

Dio lo perdona per questo suo atteggiamento? Certo. Sappiamo che al termine della vicenda Dio risulta vincente su Satana. Giobbe rimane fedele nonostante la rabbia e la sofferenza e viene riabilitato da Dio pienamente.  Certo, nel corso dello svolgimento degli eventi ci troviamo di fronte a momenti in cui Dio si trova costretto ad intervenire per rimettere al suo posto Giobbe con parole chiare e perentorie, per ridefinire quali siano, anche nella misericordia e nell’amore perfetto, i ruoli e le gerarchie: lo vediamo in primis nel capitolo 38, che vi consiglio di rileggere, quando Dio illustra a Giobbe le meraviglie della sovrana creazione, e lo apostrofa dicendo “Dove eri tu?” quando accadeva questo.

Dio in sostanza sa rimettere Giobbe al suo posto, ma comprende la sua rabbia, comprende la sua frustrazione, comprende la sua sofferenza, e lo perdona e lo riabilita.

Perché accade tutto questo? Le parole che abbiamo letto di Giobbe possono trasparire come una manifestazione di lontananza da Dio, di separazione netta: Dio, è colpa tua, sei tu il responsabile, non voglio più avere nulla a che fare con te.

Può sembrare, ma non è così. Le parole di Giobbe ce lo dicono in maniera esplicita, ed è per illustrare questo che ci servono i versetti da 23 al 27: sono versetti eloquenti e potenti. Giobbe soffre, è arrabbiato con Dio ma sa, nella sua sofferenza, che Dio c’è, che Dio ha ragione, che Dio è in controllo.

V.25: il mio redentore vive. Bellissimo. Giobbe è al colmo della sia sofferenza, trabocca di rabbia verso Dio ma allo stesso tempo dice che il suo redentore vive e che trionferà sulla polvere. La sua manifestazione di fede più elevata viene nel momento in cui egli sta massimamente soffrendo

Non solo: Giobbe vuole testimoniare la sua fede nella sofferenza, vuole che sia scritta e tramandata ai posteri (vv.23-24). Soffro, sono in collera con Dio, ma continuo a fidarmi di Lui!

Giobbe sembra aver abbandonato ogni speranza nella vita terrena, ma, allo stesso tempo, ha proiettato il suo interesse oltre questo elemento (v.26): probabilmente tra poco il mio corpo sarà distrutto, sarò chiamato alla morte, ma in quel momento vedrò Dio, e mi sarà favorevole. Dio, mi stai facendo soffrire tanto senza che io capisca perché, ma quando lascerò questo corpo ti contemplerò, sarò alla tua presenza e nel tuo amore perfetto, e mi godrò appieno questo momento. Io ti vedrò, non un altro, e voglio godermi tutto. Non solo: il cuore mi si consuma dal desiderio! Non vedo l’ora che accada.

Che cristallina manifestazione di fede nella sofferenza più estrema! A Dio basta questo. Dio sa che il cuore di Giobbe e sincero, e questo è sufficiente a perdonare tutte quelle manifestazioni di rabbia in cui ha messo in dubbio la bontà delle azioni di Dio. Dio perdona la rabbia e la frustrazione di Giobbe. Dio comprende a fondo la sua sofferenza, e lo perdona perché sa che la sua fede nonostante tutto questo è quantomai sincera. Nella prova più ardua, nel dolore più estremo, quando tutto sembra perduto, Giobbe proclama: “Il mio redentore vive”. Meraviglioso.

Questo esempio così eloquente è posto nella Bibbia affinché possiamo sapere che vale anche per noi!

Aggiungo un ulteriore dettaglio di estrema importanza: questa verità della misericordia e del perdono di Dio nella sofferenza è ancor più avvalorato dall’esempio concreto di Gesù.

Gesù ha sofferto nella sua vita? Eh beh, chi può negarlo? Gesù pianse al sepolcro di Lazzaro, vedendo i parenti afflitti. Gesù nel deserto patì fortemente la privazione fisica dopo i 40 giorni di digiuno. Gesù soffrì talmente tanto prima di essere consegnato alla crocifissione da implorare il Padre di allontanare da Lui questo calice. Gesu soffrì.

Gesù ha provato rabbia nella sua vita? Anche qui la risposta è affermativa. Gesù nel tempio distrusse le bancarelle dei cambiavalute e dei mercanti. Gesù pronunciò discorsi di inusitata veemenza nei confronti degli scribi e dei farisei ipocriti, i famosi sepolcri imbiancati (Matteo 23). Gesù provò rabbia.

Gesù sperimentò l’abbandono? “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato”. Più chiaro di così? Sulla croce Egli sperimentò concretamente l’abbandono di Dio quando si fece peccato per noi. L’abbandono di Dio in quel momento fu concreto, non una percezione: una concretezza necessaria affinché si potesse compiere il progetto di redenzione di tutta l’umanità.

Gesù ha sperimentato tutto questo. Come può di conseguenza non simpatizzare con noi e non esserci compagno, amico ed avvocato quando proviamo questi sentimenti?

Leggiamo questi versetti:

Ebrei 2:18

1Giovanni 2:1

Dio vuole che esterniamo la nostra rabbia verso di Lui quando siamo afflitti, impauriti, imprigionati nell’incomprensione. Vuole che abbiamo il coraggio di aprirci con Lui e di rivelargli tutte le profondità più recondite della nostra sofferenza.

La rabbia non è necessariamente peccato, dipende da come la si esprime: adiratevi e non peccate (Efesini 4:26).

Se siamo adirati con Dio, diciamoglielo, in preghiera; tuttavia, e qui viene la grande differenza che deve necessariamente separarci dal mondo, nonostante la rabbia, la nostra relazione con Dio deve essere sempre, obbligatoriamente e nonostante tutto dominata dalla verità espressa da Giobbe: “Io so che il mio redentore vive”. Dio vive, è presente, sempre e in ogni luogo, è in perfetto controllo di ogni cosa anche se non lo capisco, e mi ama in modo perfetto.

Signore, non capisco la sofferenza, Signore, provo rabbia, ma so che tu ci sei, mi fido di te, so che mi ami di un amore perfetto, che ti ergerai su questa polvere, che tenderai la tua mano su di me e mi rialzerai. Potrà volerci tempo, forse dovrò soffrire ancora a lungo, ma nella prova potrò continuare a sperimentare la tua presenza e la tua fedeltà, nella certezza che tu non mi tradirai.

Potrò continuare per del tempo ad essere arrabbiato con te, ma, allo stesso tempo, continuerò a fidarmi di te e a renderti il dovuto onore: se ci pensiamo, non è un concetto così assurdo. Ciò che vale con Dio vale anche nelle relazioni umane: pensiamoci, quante volte siamo arrabbiati con dei nostri amici, con i nostri coniugi, con i figli, o con dei nostri parenti, per qualcosa di sbagliato che hanno fatto o per qualche ferita che ci hanno inferto, ma, nonostante questa sofferenza viva e presente, sentiamo, con forza altrettanto chiara, che continuiamo a voler loro bene intensamente? Anche con Dio vale questo. Nella sofferenza possiamo sperimentare rabbia e frustrazione, ma la nostra fedeltà deve rimanere viva, nella certezza che l’amore di Dio è perfetto e che, come ha fatto con Giobbe, anche nella nostra vita interverrà.

Se stai soffrendo e sei imprigionato in una situazione che ti dà rabbia e che ti sembra incomprensibile, presenta senza vergogna questo tuo stato d’animo a Dio, confida in Lui, chiedi che ti apra gli occhi su come affrontare la situazione, dal punto di vista emotivo e dal punto di vista pratico, ed Egli interverrà. Ci vorrà forse più tempo di quanto pensi, ma interverrà.

Se sei talmente prostrato ed addolorato da non riuscire più a fidarti di Dio, apri il tuo cuore con le persone di cui ti fidi di più nella chiesa: parlane, chiedi aiuto, chiedi consiglio, chiedi preghiera. Non vergognarti. Aiutiamo chi ha bisogno di aiuto senza giudicare, apriamoci all’ascolto. Questo una chiesa deve fare, nella convinzione che sempre possiamo e dobbiamo fidarci di Dio, poiché Egli mai ci tradisce. È scritto nella sua Parola, e se è scritto significa che è vero.